sabato 9 novembre 2013

Just one hour

 [Scritto a quattro mani dai player di Philip e John]
 
La Renshaw è completamente operativa, ed a seguito dello stoccaggio, pronta per Greenfield. La sala macchine è in perfette condizioni, ogni processo meccanico ed elettronico è stato controllato e ricontrollato, ma ancora non intendo lasciarla. E' tardi e la maggior parte dei compagni sono fuori per le poche ore di licenza prima della partenza, ma io resto a ricontrollare fino all'ultimo decimo, i valori del motore o dei sistemi vita. Non mi pesa, anzi! Il mio lavoro è una delle poche cose che mi far star bene, in cui so prendere decisioni certe, in cui conosco le conseguenze degli eventi ed in ogni azione. So quale bullone stringere, quale bocchetta aprire, quale connessione effettuare e quale circuito azionare. È il mio mondo ed all’interno di esso non regna il caos perché riesco a controllarlo.

Ho finito da un pezzo il turno e ho il permesso di tornare al campo e buttarmi in branda in ogni momento, ma so per certo che non riuscirei a dormire. Durante la strada che dallo spazioporto porta al campo sarei costretto a vedere lo sguardo di quelle centinaia di persone affamate che si raggruppano intorno ai falò. Non voglio vedere la tristezza negli occhi degli altri soldati, data dalla mancata sicurezza della guerra. Voglio stare da solo per qualche ora dando sfogo a questa paura che sento scuotermi l'anima. Fra queste pareti d’acciaio, in mezzo a questo ronzio persistente, ho la certezza delle mie azioni. E non ho paura. Non la mostro davanti agli altri perché non voglio che si preoccupino per me, non voglio che mi considerino un debole o che mi compatiscano. Non sono più un ragazzino, sono cresciuto. Ho tenuto le redini di un Ranch e mi sono arruolato per combattere una guerra in cui credo. Non sono più un ragazzino, anche se a volte … ho la stessa paura di un tempo.

Ho appena finito d'inserire la correzione di alcuni parametri del motore,confermare l’operazione chiudendo il terminale che si inserisce all’interno della colonna di comando, quando avverto una strana sensazione: un formicolio lungo il collo. Mi volto e noto gli occhi di Nami che mi osservano. Se ne sta poggiata con la spalla al bordo della pesante porta stagna, con le braccia intrecciate sotto seno da diciottenne ed un sorriso astuto sul volto, come quello che ha un gatto randagio che tiene sotto scacco un topo in un angolo. Conosco bene quella posa, è quella delle persone vispe, spigliate ed sicure di sé. Quella dei ragazzini provenienti dai bassi fondi, cresciuti a mazzate, furtarelli, raggiri e doppi giochi. Come quello che aveva John un tempo. Mi manca quel sorriso sul viso di mio fratello, diventato quasi come una macchina ora. 

La giovane pilota mi fissa con gli occhi chiari e mi trapassa come se fossi di vetro. Ha un sorriso beffardo sul viso ed non so perché ma ho la certezza mi stia fissando già da un bel po'.
Credevo di essere solo, in nave.
Ciao Phil.
Hi… Ti serve qualcosa?
Aye, effettivamente…” Si avvicina di un passo mantenendo quell’espressione astuta e divertita come se sapesse di uno scherzo che sta per accadermi, lasciandomi del tutto perplesso. Cerco di fare rapidamente mente locale mentre distolgo lo sguardo per chinarmi sul tech kit per issarlo su di un banco. Non conosco la rossa da molto tempo. Abbiamo condiviso solo una missione quando John mi chiese di tornare su Boros e fu una sorpresa sapere che si era arruolata nell'array. Non che l'abbia vista molto anche dopo ciò. La maggior parte del tempo non era mai disponibile. Ogni volta che Red era libero, lei si chiudeva in plancia con lui per apprendere il più possibile sulle rotte spaziali e quando non erano di turno nei relativi reparti, le si allenava con Sharpe o si chiudeva in camerata a leggere chissà quale libro. La persi addirittura di vista quando John, Red e Klaus furono catturati. Chiese un trasferimento in un altro battaglione, per poi tornare solo di recente. 

Okay. Amh... che ti serve Nami?” Chiedo frugando con noncuranza all’interno del tech kit “Se cerchi i file delle carte spaziali per domani, gli ho già dati ad Eivor.
Sai, stavo pensando… domani partirò e potrei non tornare più … quantomeno non viva…” Sento la sua voce improvvisamente vicina e allora alzo di scatto la testa, non avendola sentita avvicinarsi così di soppiatto. Ora capisco perché fra gli O-Aka la chiamavano “La gatta”.
Come cavolo hai fatto a..?” Lei mi guarda. Si avvicina ancora. “Cazzate comunque, tornerete tutti Abbiamo parecchio da fare.” esclamo io con un tono di voce che vorrebbe esser deciso. Infondo lo spero davvero.
...e pure tu potresti lasciarci le penne, anche se rimani qui.” aggiunge allargando un sorriso complice.
Grazie eh!” Commento ironico, accorgendomi solo ora della porta stagna richiusa alle sue spalle. La cosa non mi piace. “Hai chiuso la porta? Potrebbero aver bisogno di…
Non c’è nessuno sulla nave, sta tranquillo.” Era brava., furbamente brava. A camminare, a muoversi, a parlare. Su di lei l’accento melodico del nostro dialetto risulta parecchio affascinate, insieme ai grandi occhi nocciola. “Sei in debito con me, Phil.
What?” Domando perplesso e mi accorgo che ho ancora le mani bloccate tra gli attrezzi del tech kit. Rimango immobile a fissarla, anche se dopo un istante giro lo sguardo su un vecchio e sporco vetro, che mi rimanda indietro un me stesso con la fronte corrucciata e l'espressione stranita.

Pensavo a quella volta che mi hai rifiutata a Gokinai.
Ero impegnato.
Non lo sei più.” obbietta lei con una semplicità disarmante.
Nami d-d-evo lavorare.” Sfilo le mani e le alzo istintivamente come per difendermi e negare la situazione stessa. Intuisco al volo il motivo per cui lei è venuta in sala macchine, ma non posso assecondarla. Sarebbe sbagliato, sotto ogni punto di vista. Sento un grosso nodo al petto che mi impedisce di respirare come vorrei.
Oooh Nick! Finiscila, di fare il moccioso, non ti sto mica per pestare!” sbuffa scocciata.
Do-dovresti andare a-a d-d-dor-mire.” balbetto come un deficiente, completamente imbarazzato. Sbatto contro qualcosa. Il bancone dietro di me frena la mia tentata fuga, intrappolandomi
Un sorriso furbo compare sul suo viso mentre rallenta il passo, vedendomi bloccato tra lei e il bancone. L'aveva chiaramente studiata.
Ma io ho intenzione di andarci...” il suo tono si abbassa e diventa più roco, tanto che il respiro mi si blocca in gola per qualche istante. “... non da sola però.” precisa poco dopo, mentre mi scruta dal basso verso l'alto ed io mi sento scorrere un brivido lungo la schiena.
Not with me...
Cos'è, per caso non sono abbastanza bella?” M’incalza mentre la sua mano destra va a cominciare a slacciare i bottoni della camicetta a quadri che le copre il petto. Distolgo lo sguardo puntandolo verso il basso, cercando di sfuggire alle sue occhiate provocatrici. Il respiro mi si mozza in gola e stavolta ho il terrore che non sia per la vergogna, ma per qualcos'altro di … peggiore. Capire cosa sto provando è una reale impresa. Vergogna, eccitazione, disagio, negazione e desiderio.
"Non... non è questo Nami. I-io ho... sono ancora... nay.. cioè... è sbagliato... n..."

Non riesco a concludere la frase che Nami scatta in avanti, senza preavviso e senza freni. Se prima era calma adesso sembra aver perso quello che la teneva ferma. Prima che possa fermarla ha già le mani intorno al collo e spinge senza disagio il suo corpo contro il mio. Sorpreso cerco di allontanarla spingendola per le spalle, ma mi anticipa, andando a poggiare prepotentemente le sue labbra contro le mie, in un bacio che non sa né di carezze né di amore, solo di una chiara passione animale e istintiva. La mie mani scivolano senza controllo sui suoi fianchi stretti, accarezzandoli. Sento che sto per lasciarmi andare quindi la stringo, ma questa volta non per abbracciarla. Ci metto più forza e la sposto letteralmente di peso. 

Damn! Che cazzo ti sei in messa in mente Nami?” vorrei urlarglielo, ma mi manca il fiato per farlo e quindi ne viene fuori un mormorio strozzato. Sento caldo ed una parte di me non sembra non essere proprio d’accordo con il mio rifiuto di quella situazione, con la mia speranza di rimettermi ancora con Beth.
Lei riapre le labbra e Dio solo sa come riesce ad essere così abile ad attrarre un uomo. “Per essere un Roser, Phil… ne hai da imparare. Forse dovresti cominciare a comportarti più da Roser che da Corer.” Sibila muovendo le proprie labbra, avvinandosi ancora. 
Quanti mesi sono che non vai a letto con una ragazza, uhm?” domanda con un sorriso bastardo sul viso, mentre si alza un poco sulle punte per raggiungermi, per potermi osservare negli occhi. Sfuggo al suo sguardo, sfuggo alla sua domanda, svicolando con il capo per allontanare il suo respiro dal mio. “Da quando ti sei mollato con quella stupida rossa, right? Era ancora prima dell'inizio della guerra e tu… sai di averne voglia.” Non rispondo perché oramai il suo corpo torna vicino al mio e va a premersi addosso con una dolcezza selvatica. Sento il contatto, il suo respiro, il suo profumo ed il battito accelerato del mio cuore. Non ho il coraggio né la voglia di spostarla. 

Ti sei chiuso qui dentro perché stasera non vuoi pensare a nulla, soprattutto alla paura e ai sensi di colpa, hai?" Mi rifila un sorriso da canaglia, mentre io deglutisco a secco senza poter smentire. Ne osservo gli occhi chiari così vicini ai miei e vado a stringere le labbra. Sento il suo respiro contro la pelle e un altro brivido mi scorre lungo la schiena. 
E allora smettila di reprimere quello che provi. Sai…” anticipa mentre le sue mani scendono sui miei fianchi, avvicinandosi lentamente alla cinta dei pantaloni, sbottonandola. “Noi Roser abbiamo un detto e sono sicura che lo sai: I'm a roser and I will do everything to survive.” Sfila lentamente la cinghia. “For just one hour, let it free, Philip.” Conclude infine prima di tornare ad appropriarsi prepotentemente delle mie labbra, mentre le sue mani ora slacciando i pantaloni, lasciandomi la liberà della sua camicetta, che viene aperta con un gesto secco.

Nami mi salta letteralmente addosso dando inizio alla passione, cingendomi il viso con le mani, ed il corpo con le gambe. Per questa ora non penserò alla guerra e neanche al fatto che probabilmente morirò sotto uno dei ponti. Non penserò a quello che non sono riuscito a fare e alle promesse che non riesco a mantenere. Almeno per un ora sarò tagliato fuori, con i sensi offuscati dalla passione. Non è amore, no... è solo... voglia... di sentirmi bene per un po'.
Per una volta mi comporterò da Roser, per una volta sarò libero come i bimbi smarriti di Gokinai, per una volta, farò quello che voglio per sopravvivere. So che non saprò darmi pace per questo sbaglio madornale, so che rimpiangerò questa cosa che non andava fatta.
Tra un ora.

Nami - 2496 - Boros 

martedì 22 ottobre 2013

Bullfinch - 21/10/2515


L’azione è concitata sulla riva Nord, coperta dalla vegetazione della giungla, del Morgan River. Gli Alleati hanno sfondato e stanno attaccando la prima linea dell’esercito Confederato. 
I proiettili perforanti dei gatling Alleati e quelli standard dei fucili dei Browncoats s’incontrano in mezzo agli alberi, sotto gli alberi. Ovunque. Ognuno ha una posizione, chi in attacco, chi in difesa. Ognuno stringe il proprio fucile che spara colpi verso il relativo nemico. La paura, il fiato corto e lo spirito di sopravvivenza guidano le mani e gli occhi spalancati del ragazzo di Boros.  
La granata a frammentazione esplode a neanche un metro da lui. Le schegge bucano la protezione balistica della tuta e s’infilano sotto la pelle come lame roventi scagliate a grande velocità. Esattamente quello che sono.  
Il dolore acuto al braccio e all’intero lato destro del corpo arriva improvviso e inclemente, strappando un urlo strozzato dalle labbra sporche e sudate del meccanico. Viene sbalzato in avanti dall’onda d’urto e vola inerme verso uno dei tanti alberi della giungla. Vede il tronco arrivare a grandissima velocità, ma scivola nell’oblio nero del dolore ancora prima d’impattarci…

Il ragazzo si tira di scatto a sedere dentro il sacco a pelo steso a terra. Gli occhi azzurri sono sbarrati e ancora persi nel conflitto avvenuto nel sogno, ma così reale da avergli mandato il cuore a mille. Il viso e la maglietta sono completamente bagnati da un sudore gelido, che gli si appiccica addosso a causa dell’afa della notte. Le labbra sono leggermente aperte, in un mix perfetto tra un urlo e una forzosa ricerca d’aria.
Gli occhi azzurri, ancora assenti, si muovono in una rapida panoramica intorno a sé.  Solo altri commilitoni che stanno dormendo nei sacchi a pelo dell’accampamento. Non c’è nessuno scontro in corso. Il meccanico abbassa lo sguardo e si osserva le mani. Tremano. Tremano senza che lui riesca a fare nulla per fermarle. 

La testa del ragazzo lo riporta a ore prima, ben più a Sud di dove si trova in quel momento. Lo riporta al gruppo di avanguardia insieme a Volkov e Eivor Edwards, appostato al limite della giungla nei pressi del West Bridge per spiare le mosse alleate. Mosse che mostrano il completamento del corridoio per i mezzi pesanti e la certezza che in meno di quarantotto ore tenteranno di passare il ponte e sfondare. Si ricorda la voce di Volkov che ordina di trovare una strada sicura per ripiegare indietro e le parole di Eivor Edwards mentre strisciavano nel fango verso Nord. Si ricorda ancora il cuore in gola e la certezza che oramai sono arrivati al temuto scontro diretto. 

Torna ad osservare le mani che tremano e quindi va a chiuderle a pugno, sentendo le dita opporsi con una rigidità che non gli appartiene.
Stringe le mani, stringe i denti, stringe il cuore  per costringerli a fermarsi. Non riesce a fermare i tremiti dovuti al nervosismo  e alla paura. Come si fa a fermare del tutto la paura? Lui non lo sa. Credeva di saperlo, ma dopo aver visto le fronte degli alberi della riva opposta ondeggiare come scosse da un terremoto, il ragazzo non ne è più tanto sicuro.
Ripensa a un tipo di un altro battaglione, più ad Ovest, che gli ha detto che senza paura non c’è coraggio. Ma lui ha solo paura, non ha coraggio. Non è un tipo coraggioso o audace. Mai stato. Sa però che non vuole esser un codardo. No. Ha ancora qualcosa, o meglio qualcuno, da proteggere.

Stringe ancora i denti e le mani con più determinazione, cercandola anche dentro a se stesso, fino a ficcarsi le unghie nei palmi. Dopo qualche istante smette di tremare. 
Sa che probabilmente gli capiterà ancora, che quello è solo un momento di pausa,  ma sa che anche le altre volte opporrà quella stessa stolta, istintiva e disperata determinazione. 

Quella di chi sembra non aver niente, ma in realtà ha tutto da perdere.

mercoledì 11 settembre 2013

A Bullfinch fa caldo

Su Bullfinch fa caldo, certo meno che a Greenfield o a Boros, ma comunque  Polaris si fa sentire quando ci lavori sotto tutto il santo giorno. Le bombe lanciate da quei bastardi dei mercenari sono cadute sulle case della periferia, senza pietà, senza giustizia, solo con l’intento di distruggere non curandosi di ciò che c’è sotto. 
Sento dentro di me una rabbia che non è facile descrivere, alimentata dalla consapevolezza che  sono solo le prime bombe. Arriveranno quelle a tappeto e sarà molto peggio. E’ una cosa che ho già visto, tempo fa a casa, durante la guerra a casa.

Sono passati tanti anni però non mi scordo neanche un secondo di quel periodo, never. E’ qualcosa che ti rimane nell’animo e nella mente, sempre pronto a posarsi davanti agli occhi senza preavvisi per non farti dormire la notte. La tua terra in fiamme, il rombo delle corazzate interplanetarie che entrano nella bassa atmosfera, il sibilo delle bombe prima dell’esplosione, i corpi straziati… Dio no! Non posso e non voglio scordare , non sarebbe giusto.
Boros non è mai stato un grande pianeta, l’ammetto, ma è il mio pianeta. Certo, non era facile viverci, non lo è tutt’ora. però è la mia terra.  E’ il posto a cui appartengo, è l’unico posto che posso veramente chiamare Casa. Quando nasci con una terra sai che sei legato ad essa e che quella sarà la tua vita. Non è qualcosa di oppressivo, anzi tutt’altro. Un uomo senza terra è un uomo a metà, gli mancherà una parte di sé.  Io lo so. 

Lo so più che bene.

Mia madre aveva una piccola fattoria, più defilata rispetto al resto del villaggio di Desert River, ma in mezz’ora di cammino riuscivamo ad arrivare al mercato.  Me la ricordo ancora perfettamente, sarei in grado di dire il numero esatto di assi di legno del soffitto oppure la quantità di crepature dei mattoni d’argilla. Eravamo ai confini del Central Desert, a poche miglia di distanza. E’ un posto dove manca totalmente cibo e acqua, se non in rare oasi, e non vi sono rifugi contro il sole torrido di Columba.  Mi  piaceva restare seduto sul davanzale della finestra del retro a fissare il deserto, anche per tante ore di seguito. Mi chiedevo che cosa c’era dall’altra parte, mia madre non lo sapeva, e se era meglio di Desert River. Volevo scappare, fuggire lontano da quel posto dove stavamo male, dove tutti ci trattavano ingiustamente. Quando glielo dicevo a mia madre lei mi metteva le mani sulle spalle e si abbassava sulle ginocchia, così da potermi osservare dritto negli occhi. 

Non si scappa dalle responsabilità e dai problemi Philip. Si convive tutti i giorni con le proprie scelte.

Ricordo ancora le sue parole e forse solo adesso comprendo cosa voleva dirmi. All’epoca ero solo un bambino, non riuscivo a capire perché dovevamo stare male. Io piangevo, volevo scappare. E’ orribile essere umiliati tutti i giorni, sempre, per qualcosa per cui non hai colpa. Non si scelgono i genitori.
Avrei voluto odiare mia madre, ma sapevo che non era neanche colpa sua. Era di mio padre, di quel vigliacco approfittatore. E’ sfuggito dalle sue responsabilità, ben sapendo che gli toccavano.  Mia madre no,  voleva restare lì per dimostrare a tutti che lei invece non sarebbe scappata, no, glielo avrebbe dimostrato a vita. Per lei e per me.

L’ha fatto fino a quando le bombe non hanno cominciato a cadere a tappeto su tutta la regione di Gokinai e di Rock Valley.  La nostra terra veniva bruciata e, improvvisamente, il deserto alle spalle di casa non era più l’unico posto desolato.
Un giorno stavo cercando di tagliare un ciocco di legno mentre mia madre raccoglieva le verdure dal piccolo, quanto sterile, orto che avevamo quando tre raptor solcarono il cielo sopra di noi a una velocità incredibile. Ricordo che mia madre gridò di spavento, mi prese un braccio e mi sbatté  contro il muro, sotto la tettoia.
Io non capivo il motivo di quella paura, anzi continuavo a fissare con gli occhi spalancati quei cavalli di ferro… sì all’epoca pensavo fossero dei cavalli, non avevo mai visto nulla del genere  nella mia breve vita anche se sapevo che esistevano le navi spaziali.  Ero meravigliato, stupito da quelle cose volanti. Erano qualcosa di diverso, qualcosa di nuovo e incredibile… almeno per me. 

Qualcosa di terrificante per tutti gli altri.

Non si fermarono dai noi, forse neanche ci considerarono, ma si diressero in formazione verso Desert River e sganciarono le loro bombe.
Il rumore era assordante, tanto che io e mia madre dovemmo coprirci le orecchie con entrambe le mani, nonostante fossimo abbastanza distanti dal luogo d’impatto. Poi la terra tremò, così, senza nessun motivo apparente. Finii con il muso a terra, le mani strette sulle orecchie e la sabbia in bocca. Allora anche io urlai di paura.  C’erano delle luci accecanti, sembrava che i tutti lampi delle rare tempeste stagionali si fossero raccolti in un solo punto. 
La nostra cittadina.

Improvvisamente , così come era iniziato, tutto finì.  La terra sotto di noi cessò di sussultare, anche se lo fece in un modo simile all’ultimo rantolo di un animale morente. Mia madre mi spedì in casa con un tono che mai aveva usato, anche se alle mie domande disse che andava tutto bene. Disse che sarebbe andata al villaggio per vedere cos’era successo e mi proibì categoricamente di uscire. Chiuse la porta a chiave e se ne andò lungo la strada con un andatura traballante.  Io la guardai dalla finestra e notai facilmente una grossa cappa di fumo in lontananza.

Ero confuso, ma anche impaurito. Più di quello che era successo mi spaventava l’espressione di mia madre. Non l’avevo mai vista così ed era chiaro anche per me che non era tutto a posto. L’angoscia e la paura mi colsero d’improvviso. Mia madre stava andando dove c’era il fumo!
Non ricordo granché di come ci riuscii, ma scassinai la porta con… non saprei dire neanche cosa fosse… e mi precipitai fuori di corsa, dabbasso, lungo il sentiero di terra battuta.  Quando raggiunsi il villaggio non credevo ai miei occhi. 

Era qualcosa d’impossibile. 

Alcune strutture erano in preda alla fiamme e le strade erano occupate dalle macerie delle case. Poche cose erano ancora in piedi. Gli abitanti correvano avanti e indietro cercando di mettere in salvo il salvabile.
La cosa che mi sconvolse, però,  non erano le fiamme, bensì la moltitudine di corpi spari ovunque.  A terra, in mezzo alle macerie.... c’erano così tante persone in pose scomposte, a volte talmente tanto sconquassate dalle bombe che erano solo una poltiglia di sangue e carne. Il grasso colava dalla pelle di alcuni, altri urlavano in modo straziante per il dolore. L’odore di carne bruciata era ripugnante. Gli altri bambini come me piangevano terrorizzati. Lo facevo anche io, anche se non me ne accorsi subito.  Mi sentii male e caddi in ginocchio, le mani appoggiate sulla pancia e l’anima scagliata sul ciglio della via.  

Se via ancora si poteva chiamare. 

A un certo momento intravidi mia madre correre insieme ad altri con una bacinella d’acqua. Allungai la mano e cercai di parlare, ma non ci riuscii. Non mi usciva neanche un filo di voce, l’avevo persa prima con il pianto incontrollato.
Lei non si fermò, probabilmente non mi notò neanche in tutta quella confusione. Avevo paura, ero veramente terrorizzato. E’ un sensazione così forte che non si può descrivere a parole. Ti senti come dilaniato, nonostante tu stia bene fisicamente. Ero come svuotato da tutto, la paura profonda era sovrana. Non era, tuttavia, il panico provato poco prima, ma qualcosa di diverso. Non ragionavo, non riuscivo a mettere insieme nessun pensiero logico. Ero… non so neanche io come spiegarlo. 

Ero vuoto e stordito.

Mi costrinsi ad alzarmi  e ad andarle appresso, anche se barcollavo nel passo.  Percepivo le gambe molli, come la pasta del pane non ancora lievitata. Sembravano non volermi sostenere per farmi andare avanti. La Main Street era uguale all’ingresso del villaggio: Fuoco, fumo, puzza di carne bruciata, feriti e cadaveri. Ero un bambino, ma presto mi abituai a quella vista.
Ci furono altre scariche, finché mia madre decise che dovevamo andarcene da casa. Nel giro di pochi mesi la situazione era diventata insostenibile. Non c’era più cibo, le poche coltivazioni erano state distrutte, l’acqua era inquinata, le malattie imperanti ed oramai eravamo rimasti solo un cinquantina, forse anche meno. Profughi, ecco cosa eravamo diventati.   
Dei profughi.

Mia madre mosse per Goinaki, alcuni vennero con noi, altri invece si spostarono non so dove. La città era più soggetta ai raid perché bersaglio facile, l’avevamo imparato, ma ormai eravamo alla carestia. Quel poco di vettovaglie che c’erano arrivavano direttamente in città, non avevamo molta scelta. O morivamo di certo per fame o malattia oppure rischiavamo di morire sotto le bombe.
Avevo sempre sognato di andarmene, ma non in quel modo, non così. Sapere di star lasciando casa tua, probabilmente per sempre, è un dolore, una tristezza che ti scava dentro. Mia madre mi disse che potevo piangere solo una lacrima, soltanto una, a patto che fosse buona. Era dannatamente buona.

Una mano sulla spalla mi riporta prepotentemente al presente. Mi accorgo di avere gli attrezzi in mano e di star fissando il vuoto, chissà da quanto. Il proprietario della mano mi comunica che la giornata è finita, che posso andare a riposarmi un poco e che il caldo fa brutti scherzi alla testa. 
A Bullfinch fa caldo… troppo caldo.

martedì 20 agosto 2013

Family

Sdraiato sul letto di John il mio sguardo spazia per il soffitto della cabina. La luce notturna nell’angolo produce ombre distorte ma fisse sul soffitto. Giro la testa verso di lui, sdraiato sul letto di Sam. Mi da le spalle, pare stia dormendo.
Dovrei odiarlo, per quello che mi ha fatto… portarmi via Beth, ma non ci riesco. Non adesso. Non così.
Mi ritrovo in mano l'armonica di Jacob Cox, il padre di Winger. La rigiro tra le mani, con attenzione, temendo di farla cadere.
Riporto lo sguardo sulla sua schiena di John.
Il ricordo dell’ultima conversazione mi attraverso la mente.  

He’s broken.

 Provo a chiamarlo, a bassa voce, come preso da un pensiero. Mugugna qualcosa, non sta dormendo.
Apro la bocca un paio di volte, ma non esce niente ed infine lascio che si rimetta a dormire.
Sono stati giorni tremendi, estenuanti, sfiancanti. Ogni volta che mi giro trovo qualcosa che non riesco a capire del tutto e quello accaduto a John, a Sam… La sua famiglia, è qualcosa che mi sta tormentando.
Il rapporto padre e figlio una relazione che mi ha sempre lasciato in silenzio, senza parole, come se fossi fuori luogo in un contesto simile. Come se fosse sbagliato.
Non sarebbe giusto dire che non ho mai avuto famiglia, nay.
Io ricordo mia madre, anche se ero piccolo. Ricordo le sue mani che si avvicinavano al mio viso per lasciarci una carezza ma non riesco a ricordare la freschezza della sua pelle. Ricordo quando, prima di uscire di casa, mi stringeva forte in un abbraccio anche se non ricordo il calore della sua stretta. Ricordo che mi sollevava il mento con un dito e mi diceva di tenerla alta, di essere fiero, il tono della sua voce è però perso nei ricordi. Ricordo il bacio che mi lasciava sulla fronte, prima di girarmi e farmi andare da solo al monastero e mi maledico per aver dimenticato la morbidezza delle sue labbra. Mi resta solo questo. Vaghi ricordi, vaghi sentori, tutto pare offuscato in una fumosa coltre. So che è esistita, ma quelle piccole cose la rendevano reale stanno scemando ogni giorno che passa. Non è l'immagine, il ricordo che si affievolisce, ma i sentimenti legati a quel ricordo.
 God, how I feel something? 

Mia madre era una donna forte, di quelle che hanno il coraggio di camminare dritte in mezzo alla folla del mercato, anche se la gente la schivava disprezzandola. Col suo portamento sembrava essere in grado di aprire volontariamente quel varco tra la gente ipocrita di Desert river. Affrontava a testa alta ogni aspetto della vita, non ribatteva mai, e lottava ogni santo giorno. Anche quando al mercato aumentavano i prezzi, per quelle come lei. Anche se non le volevano vendere i propri prodotti, accampando scuse ridicole.

Anche per me non fu facile. I bambini sanno essere cattivi, sanno essere spregevoli e crudeli più degli adulti. Mi additavano, mi allontanavano, mi schernivano ed insultavano. Ancora ad oggi l’odio mi scorre nelle vene al solo ricordo. Insultavano mia madre, le davano della puttana. Mi cacciavano come un ratto, perché ero un Windson. Un figlio del vento, un bastardo nato da un padre che non ha voluto riconoscermi come figlio. E non serviva a nulla negare la cosa. Negare la verità. Sono un figlio bastardo, che ha come padre un vigliacco stupratore.
Sento ancora le loro voci in testa. Sono passati dodici anni e li sento ancora se mi concentro. Non li voglio ricordare.

Lei non è mai stata una puttana. Quel bastardo la minacciava di bruciarle la fattoria dei genitori, di ucciderli. Era uno della classe benestante di Desert river, di quelli che godono nel sottomettere gli altri, i più deboli. Ha fatto così anche con mia madre, l'ha presa con la forza, costringendola a diventare una concubina. La tenne per un po' e poi l'ha gettata via come uno straccio vecchio, da suoi. Come se fosse una normale consuetudine, perché funzionava così, se non fosse che mia madre restò incinta di me.

Everyone knew that, but nobody helped her.

In questo caso si facevano due cose a Desert river. O si chiamava una levatrice per l’aborto, oppure se eri religiosa, partorivi ed affidavi il piccolo ad un orfanotrofio Nikolista. La cosa si chiudeva così, in un collettivo silenzio, come se non fosse mai successo.
Mia madre fece una cosa che andava contro le silenziose consuetudini. Decise di tenermi con sé e andò da quel Bastardo per chiedergli di assumersi le sue responsabilità. ma lui le sparò addosso per farla allontanare.
Da quel giorno, da quel rifiuto le cose per lei crollarono. I suoi genitori la cacciarono di casa per la vergogna che provarono nell’avere una donna disonorata convinta a mantenere il frutto del peccato. Gli abitanti la evitavano come la peste perché aveva in grembo un Windson, un figlio del vento, uno senza padre, senza discendenza. E su Boros, quando hai questo cognome, significa che non hai diritto agli Antenati. Non appartieni a nessuna dinastia. Vuol dire che sei ripudiato, da entrambe le famiglie.
Aye, già... le famiglie. Sempre il solito punto.

La mia famiglia era mia madre, nessun'altro. È morta che avevo undici anni, sotto le bombe lanciate dalle blujacks. Con lei è morta la mia famiglia.
Troppo poco tempo per capire veramente cosa fosse ma abbastanza per capirne l'importanza, dopo averla persa.
Sono passati anni, ma mi sento continuamente in un limbo. Capisco alcune cose di questo legame che unisce le persone, i genitori con i propri figi, ma non riesco a sentirle veramente mie. Sembrano non appartenermi.

Vorrei capire davvero che cosa sia una famiglia, sentire di appartenere a qualcosa... a qualcuno.

Ho guardato Sam con John. Li ho osservati da lontano, studiandoli. I piccoli gesti, gli sguardi e qualcosa a cominciato a muoversi nella mia mente, qualcosa di familiare, come se l’avessi già provato.
Mi sono venuti in mente alcuni ricordi. La morbidezza delle carezze di Lars. La forza degli abbracci stretti di Winger, prima che mi arruolassi. La voce scherzosa, poi irata e poi di nuovo leggera ed amichevole di John.
Ricordo il sapore delle labbra di Beth l'ultima volta che ci siamo baciati.

Osservo l'armonica di Jacob Cox tra le mie mani e realizzo che forse non ho mai capito un cazzo. Neanche adesso.
Nella testa mi passano dei lampi, dei flashback.
Le pacche di Kayne, i silenzi studiati di Nathan, i sorrisi di Roona, le occhiate di Quinn, le chiacchierate con il Capitano Neville, le smorfie di Alan...

Nay, non ho mai capito che cos'è una famiglia perché ce l'ho avuta davanti al naso per tutto questo tempo e non me ne sono accorto. Non sono riuscito a riconoscerla come tale perché l’unica mia famiglia è stata solo mia madre.

Mi giro di nuovo verso John e lo osservo in silenzio, per un istante. Lo richiamo, più deciso.
I love you, brò.

Lui non mi risponde, probabilmente già addormentatosi da tempo e non credo che mi abbia sentito. Un sorriso nasce sulle mie labbra rimetto l'armonica sotto il cuscino, per poi addormentarmi nel giro di pochi istanti.

venerdì 2 agosto 2013

What have you done?


[Una canzone che racchiude i pensieri attuali di Philip su John e Beth]


mercoledì 24 luglio 2013

Disappeared - Part IV

-Beh? che c'è da spiegare? Ha perso la memoria.-
-Sì, appunto. Io non ho le competen...-
-A casa succede spesso, lo sai. Soprattutto quando le ragazze ti cercano, dopo che le hai trombate la sera prima, promettendole di sposarle. Ahahahahahah.-
La risata baritonale irrompe per la cabina di Harl Jason, capitano della Deep Space. E' una risata che si ricollega a una battuta stupida, sporca, niente di esilarante a ben vedere. Ride solo lui, ride da solo, il medico rimane in silenzio davanti alla porta stagna ben sigillata.
-Dovresti farlo scendere a terra, tipo Maracay.- Il tono del medico è piatto, quasi rassegnato.
-Nay.- Una negazione diretta. Un ordine si direbbe.
-Ci sono buoni ospedali lì, magari qualche medico sa cosa fare.-
-Nay.-
-Why not?-
-Ha un debito con noi, se lo lascio a terra se ne scapperebbe via come una lippa.-
-Sai che non è il tipo.-
-Ho detto di no e la faccenda si chiude qui, Sean. E' un ordine.- Il tono del capitano si fa secco, quasi brutale. Gli occhi da rospo si assottigliano e la mano grassoccia indica la porta con movimenti scattosi. Fuori.
-Fai come vuoi.- La porta viene sbattuta con violenza, i passi nervosi rimbombano sui camminamenti metallici del Wyoming.

Harl Sean ha quattro anni in meno del fratello, 38 per l'esattezza, ma non potrebbe essere più diverso. Ha un fisico asciutto, quasi scheletrico. Il viso è sottile e allungato, il naso è leggermento storto per via di un pugno ricevuto quindici anni prima. Il primo lavoro con la Deep Space. Ha una mente acuta e reattiva, una predisposizione alla medicina, ma uno studio lacunoso. L'esperienza ha un po' fatto da pezza al fatto di essere nato su Albany, ma non abbastanza per tutto. Sa curare le ferita, il cervello è qualcosa che non ha mai toccato.

I passi lo portano in direzione della sala macchine, sicuro di trovarlo lì. Passa tutte le ore lì dentro, eccetto quelle dei pasti. Se potesse, probabilmente ci dormirebbe anche, nonostante il casino infernale del reattore.
Sa benissimo perchè suo fratello, il Capitano, non vuole farlo vedere da qualcun'altro. Ha paura che riacquisti la memoria, sì... è quello il motivo, glielo ha letto negli occhi acquosi da rospo. Da una parte riesce anche a capirlo, un meccanico così non è facile da trovare. Quel ragazzo ha qualcosa di speciale con i motori, un feeling che pochi possono vantare. Le capisce, non sa come, non sa perchè... non lo sa neanche lui, ma ci riesce. Sembra quasi che i fili elettrici e i numeri gli parlino.
Se qualcuno riuscisse a fargli riacquistare la memoria probabilmente se ne andrebbe... e questo Jason non lo vuole. Sì è vero, quel ragazzo ha un debito con loro, ma in realtà sanno entrambi che l'ha già saldato.
Ha disattivato una bomba piazzata dentro una cassa. Dio! Una bomba! Non sa chi sia il ragazzo, ma di sicuro ha ricevuto un addestramento serio per quella roba... ma lui non ricorda.
La sala macchine è lì di fronte, il rumore è forte e una figura alta e con il fisico da contadinozzo si aggira intorno ai vari display.

-Ragazzo.- Il tono del medico è basso e flebile, nonchè quasi scocciato.
-.....-
-Ragazzo.-
-.....-
-Kiddow!- L'accento di Albany che si fa imperante in quel richiamo, ora molto più forte dei precedenti.
Il giovane meccanico si gira di scatto, gli occhi azzurri un poco spalancati.
-Winger mi chiama così.- Le labbra si muovono appena, mentre un espressione spiritata viene lanciata addosso al medico. E' sempre così, ogni volta che ricorda qualcosa sembra farlo meccanicamente, come un deck.
-Chi?- il tono è di nuovo pacato, nonostante la curiosità baleni negli occhi scuri dell'uomo.
-Winger.-
-E chi è?-
-Non lo so.- Il ragazzino dai capelli scuri, fasciati con delle bende bianche, scuote la testa, per poi fare un sospiro rassegnato e tornare a guardare i valori che scorrono sul display di fronte al reattore.
-Beh, è già qualcosa. Certo, non me ne frega un cazzo farti da strizzacervelli, ma se vuoi dire qualcos'altro...- Il tono è burbero e scontroso, di chi come l'ariete, attacca prima per difendersi.
-Lars, Beth, John, Alan, Winger, Maya. Ma ricordo solo i nomi, non chi sono...-
-Esatto, continua a ripeterli così ti rimangono di più in testa.- No, non ci crede neanche lui. Mai avuto una situazione simile e non sa dove mettere le mani. Una cosa però la sa: il ragazzo ha una memoria formidabile. Sa che è strano, ma da quando si è risvegliato in avanti, quindi circa due mesi, è stato un database umano. Uno con un trauma così dovrebbe far fatica a ricordare, eppure...

-Le hai inviate le lettere Sean?- La voce del ragazzo lo strappa improvvisamente dai propri pensieri e lo costringe a riportare gli occhi scuri su quella giovane figura di fronte al display.
-Sorry?-
-Le lettere.- ripete ancora il ragazzo anche se ora il tono si fa chiaramente più incalzate, così come lo sguardo speranzoso che viene buttato addosso al medico.
-Ovviamente, easy.- La risposta arriva veloce. Mente, non ci deve pensare. E' una risposta pronta da ore, chiusa in cassetto della mente insieme ai rimorsi.
-Perfetto, thanks Sean. Magari loro sanno dirmi qualcosa in più.- risponde il ragazzo con un sorriso che si allarga sulla faccia. Maledizione, il medico lo odia quando sorride. Gli fa ricordare quanto alla fine loro, tutti loro, puntino al proprio interesse fregandosene degli altri. La cosa non l'ha mai fatto sentire in colpa, ma con quel ragazzo è diverso. Ha qualcosa di diverso.
-Certo.-
-Va tutto bene? Mi sembri distratto.-
-Eh? No, va tutto bene. E poi fatti i cazzi tuoi, non sono io quello conciato male qui!-
Un sorriso che vorrebbe essere da stronzo compare sulla faccia pallida del medico, che ancora una volta va a chiudere i rimorsi e i sentimenti dietro quella maschera di menefreghismo creata da lui stesso.
Due lettere per cercare il passato, due persone che sarebbero dovuto essere avvisate e non lo saranno mai. Lars Wolfwood e Elizabeth Moira Angela Lightwood.  Due lettere intercettate dal Capitano prima di arrivare alla stazione postale. Due rimorsi che fanno torturare il labbro inferiore del medico.
-Ti farò andare via...- il tono è un sussurro, qualcosa di proibito scappato dai pensieri.
-Cosa?- Il ragazzo si gira, lo sguardo confuso.
-Nothing.-