martedì 22 ottobre 2013

Bullfinch - 21/10/2515


L’azione è concitata sulla riva Nord, coperta dalla vegetazione della giungla, del Morgan River. Gli Alleati hanno sfondato e stanno attaccando la prima linea dell’esercito Confederato. 
I proiettili perforanti dei gatling Alleati e quelli standard dei fucili dei Browncoats s’incontrano in mezzo agli alberi, sotto gli alberi. Ovunque. Ognuno ha una posizione, chi in attacco, chi in difesa. Ognuno stringe il proprio fucile che spara colpi verso il relativo nemico. La paura, il fiato corto e lo spirito di sopravvivenza guidano le mani e gli occhi spalancati del ragazzo di Boros.  
La granata a frammentazione esplode a neanche un metro da lui. Le schegge bucano la protezione balistica della tuta e s’infilano sotto la pelle come lame roventi scagliate a grande velocità. Esattamente quello che sono.  
Il dolore acuto al braccio e all’intero lato destro del corpo arriva improvviso e inclemente, strappando un urlo strozzato dalle labbra sporche e sudate del meccanico. Viene sbalzato in avanti dall’onda d’urto e vola inerme verso uno dei tanti alberi della giungla. Vede il tronco arrivare a grandissima velocità, ma scivola nell’oblio nero del dolore ancora prima d’impattarci…

Il ragazzo si tira di scatto a sedere dentro il sacco a pelo steso a terra. Gli occhi azzurri sono sbarrati e ancora persi nel conflitto avvenuto nel sogno, ma così reale da avergli mandato il cuore a mille. Il viso e la maglietta sono completamente bagnati da un sudore gelido, che gli si appiccica addosso a causa dell’afa della notte. Le labbra sono leggermente aperte, in un mix perfetto tra un urlo e una forzosa ricerca d’aria.
Gli occhi azzurri, ancora assenti, si muovono in una rapida panoramica intorno a sé.  Solo altri commilitoni che stanno dormendo nei sacchi a pelo dell’accampamento. Non c’è nessuno scontro in corso. Il meccanico abbassa lo sguardo e si osserva le mani. Tremano. Tremano senza che lui riesca a fare nulla per fermarle. 

La testa del ragazzo lo riporta a ore prima, ben più a Sud di dove si trova in quel momento. Lo riporta al gruppo di avanguardia insieme a Volkov e Eivor Edwards, appostato al limite della giungla nei pressi del West Bridge per spiare le mosse alleate. Mosse che mostrano il completamento del corridoio per i mezzi pesanti e la certezza che in meno di quarantotto ore tenteranno di passare il ponte e sfondare. Si ricorda la voce di Volkov che ordina di trovare una strada sicura per ripiegare indietro e le parole di Eivor Edwards mentre strisciavano nel fango verso Nord. Si ricorda ancora il cuore in gola e la certezza che oramai sono arrivati al temuto scontro diretto. 

Torna ad osservare le mani che tremano e quindi va a chiuderle a pugno, sentendo le dita opporsi con una rigidità che non gli appartiene.
Stringe le mani, stringe i denti, stringe il cuore  per costringerli a fermarsi. Non riesce a fermare i tremiti dovuti al nervosismo  e alla paura. Come si fa a fermare del tutto la paura? Lui non lo sa. Credeva di saperlo, ma dopo aver visto le fronte degli alberi della riva opposta ondeggiare come scosse da un terremoto, il ragazzo non ne è più tanto sicuro.
Ripensa a un tipo di un altro battaglione, più ad Ovest, che gli ha detto che senza paura non c’è coraggio. Ma lui ha solo paura, non ha coraggio. Non è un tipo coraggioso o audace. Mai stato. Sa però che non vuole esser un codardo. No. Ha ancora qualcosa, o meglio qualcuno, da proteggere.

Stringe ancora i denti e le mani con più determinazione, cercandola anche dentro a se stesso, fino a ficcarsi le unghie nei palmi. Dopo qualche istante smette di tremare. 
Sa che probabilmente gli capiterà ancora, che quello è solo un momento di pausa,  ma sa che anche le altre volte opporrà quella stessa stolta, istintiva e disperata determinazione. 

Quella di chi sembra non aver niente, ma in realtà ha tutto da perdere.