Sento
dentro di me una rabbia che non è facile descrivere, alimentata dalla
consapevolezza che sono solo le prime
bombe. Arriveranno quelle a tappeto e sarà molto peggio. E’ una cosa che ho già
visto, tempo fa a casa, durante la guerra a casa.
Sono passati tanti anni però non mi scordo neanche un secondo di quel periodo, never. E’ qualcosa che ti rimane nell’animo e nella mente, sempre pronto a posarsi davanti agli occhi senza preavvisi per non farti dormire la notte. La tua terra in fiamme, il rombo delle corazzate interplanetarie che entrano nella bassa atmosfera, il sibilo delle bombe prima dell’esplosione, i corpi straziati… Dio no! Non posso e non voglio scordare , non sarebbe giusto.
Boros non è mai stato un grande pianeta, l’ammetto, ma è il mio pianeta. Certo, non era facile viverci, non lo è tutt’ora. però è la mia terra. E’ il posto a cui appartengo, è l’unico posto che posso veramente chiamare Casa. Quando nasci con una terra sai che sei legato ad essa e che quella sarà la tua vita. Non è qualcosa di oppressivo, anzi tutt’altro. Un uomo senza terra è un uomo a metà, gli mancherà una parte di sé. Io lo so.
Lo so più che bene.
Mia madre
aveva una piccola fattoria, più defilata rispetto al resto del villaggio di
Desert River, ma in mezz’ora di cammino riuscivamo ad arrivare al mercato. Me la ricordo ancora perfettamente, sarei in
grado di dire il numero esatto di assi di legno del soffitto oppure la quantità
di crepature dei mattoni d’argilla. Eravamo ai confini del Central Desert, a
poche miglia di distanza. E’ un posto dove manca totalmente cibo e acqua, se
non in rare oasi, e non vi sono rifugi contro il sole torrido di Columba. Mi piaceva restare seduto sul davanzale della
finestra del retro a fissare il deserto, anche per tante ore di seguito. Mi
chiedevo che cosa c’era dall’altra parte, mia madre non lo sapeva, e se era
meglio di Desert River. Volevo scappare, fuggire lontano da quel posto dove
stavamo male, dove tutti ci trattavano ingiustamente. Quando glielo dicevo a
mia madre lei mi metteva le mani sulle spalle e si abbassava sulle ginocchia,
così da potermi osservare dritto negli occhi.
“Non si scappa dalle
responsabilità e dai problemi Philip. Si convive tutti i giorni con le proprie
scelte.”
Ricordo
ancora le sue parole e forse solo adesso comprendo cosa voleva dirmi. All’epoca
ero solo un bambino, non riuscivo a capire perché dovevamo stare male. Io
piangevo, volevo scappare. E’ orribile essere umiliati tutti i giorni, sempre,
per qualcosa per cui non hai colpa. Non si scelgono i genitori.
Avrei
voluto odiare mia madre, ma sapevo che non era neanche colpa sua. Era di mio
padre, di quel vigliacco approfittatore. E’ sfuggito dalle sue responsabilità,
ben sapendo che gli toccavano. Mia madre
no, voleva restare lì per dimostrare a
tutti che lei invece non sarebbe scappata, no, glielo avrebbe dimostrato a
vita. Per lei e per me.L’ha fatto fino a quando le bombe non hanno cominciato a cadere a tappeto su tutta la regione di Gokinai e di Rock Valley. La nostra terra veniva bruciata e, improvvisamente, il deserto alle spalle di casa non era più l’unico posto desolato.
Un giorno stavo cercando di tagliare un ciocco di legno mentre mia madre raccoglieva le verdure dal piccolo, quanto sterile, orto che avevamo quando tre raptor solcarono il cielo sopra di noi a una velocità incredibile. Ricordo che mia madre gridò di spavento, mi prese un braccio e mi sbatté contro il muro, sotto la tettoia.
Io non capivo il motivo di quella paura, anzi continuavo a fissare con gli occhi spalancati quei cavalli di ferro… sì all’epoca pensavo fossero dei cavalli, non avevo mai visto nulla del genere nella mia breve vita anche se sapevo che esistevano le navi spaziali. Ero meravigliato, stupito da quelle cose volanti. Erano qualcosa di diverso, qualcosa di nuovo e incredibile… almeno per me.
Qualcosa di terrificante
per tutti gli altri.
Non si
fermarono dai noi, forse neanche ci considerarono, ma si diressero in
formazione verso Desert River e sganciarono le loro bombe. Il rumore era assordante, tanto che io e mia madre dovemmo coprirci le orecchie con entrambe le mani, nonostante fossimo abbastanza distanti dal luogo d’impatto. Poi la terra tremò, così, senza nessun motivo apparente. Finii con il muso a terra, le mani strette sulle orecchie e la sabbia in bocca. Allora anche io urlai di paura. C’erano delle luci accecanti, sembrava che i tutti lampi delle rare tempeste stagionali si fossero raccolti in un solo punto.
La nostra cittadina.
Improvvisamente
, così come era iniziato, tutto finì. La
terra sotto di noi cessò di sussultare, anche se lo fece in un modo simile
all’ultimo rantolo di un animale morente. Mia madre mi spedì in casa con un
tono che mai aveva usato, anche se alle mie domande disse che andava tutto
bene. Disse che sarebbe andata al villaggio per vedere cos’era successo e mi
proibì categoricamente di uscire. Chiuse la porta a chiave e se ne andò lungo
la strada con un andatura traballante.
Io la guardai dalla finestra e notai facilmente una grossa cappa di fumo
in lontananza.
Ero
confuso, ma anche impaurito. Più di quello che era successo mi spaventava
l’espressione di mia madre. Non l’avevo mai vista così ed era chiaro anche per
me che non era tutto a posto. L’angoscia e la paura mi colsero d’improvviso.
Mia madre stava andando dove c’era il fumo!
Non
ricordo granché di come ci riuscii, ma scassinai la porta con… non saprei dire
neanche cosa fosse… e mi precipitai fuori di corsa, dabbasso, lungo il sentiero
di terra battuta. Quando raggiunsi il
villaggio non credevo ai miei occhi.
Era qualcosa d’impossibile.
La cosa
che mi sconvolse, però, non erano le
fiamme, bensì la moltitudine di corpi spari ovunque. A terra, in mezzo alle macerie.... c’erano
così tante persone in pose scomposte, a volte talmente tanto sconquassate dalle
bombe che erano solo una poltiglia di sangue e carne. Il grasso colava dalla
pelle di alcuni, altri urlavano in modo straziante per il dolore. L’odore di
carne bruciata era ripugnante. Gli altri
bambini come me piangevano terrorizzati. Lo facevo anche io, anche se non me ne
accorsi subito. Mi sentii male e caddi
in ginocchio, le mani appoggiate sulla pancia e l’anima scagliata sul ciglio
della via.
Alcune
strutture erano in preda alla fiamme e le strade erano occupate dalle macerie
delle case. Poche cose erano ancora in piedi. Gli abitanti correvano avanti e
indietro cercando di mettere in salvo il salvabile.
Se via ancora si poteva
chiamare.
A un certo
momento intravidi mia madre correre insieme ad altri con una bacinella d’acqua.
Allungai la mano e cercai di parlare, ma non ci riuscii. Non mi usciva neanche
un filo di voce, l’avevo persa prima con il pianto incontrollato.
Lei non si
fermò, probabilmente non mi notò neanche in tutta quella confusione. Avevo
paura, ero veramente terrorizzato. E’ un sensazione così forte che non si può
descrivere a parole. Ti senti come dilaniato, nonostante tu stia bene
fisicamente. Ero come svuotato da tutto, la paura profonda era sovrana. Non
era, tuttavia, il panico provato poco prima, ma qualcosa di diverso. Non ragionavo,
non riuscivo a mettere insieme nessun pensiero logico. Ero… non so neanche io
come spiegarlo.
Ero vuoto e stordito.
Mi
costrinsi ad alzarmi e ad andarle
appresso, anche se barcollavo nel passo.
Percepivo le gambe molli, come la pasta del pane non ancora lievitata.
Sembravano non volermi sostenere per farmi andare avanti. La Main Street era
uguale all’ingresso del villaggio: Fuoco, fumo, puzza di carne bruciata, feriti
e cadaveri. Ero un bambino, ma presto mi abituai a quella vista.
Ci furono
altre scariche, finché mia madre decise che dovevamo andarcene da casa. Nel
giro di pochi mesi la situazione era diventata insostenibile. Non c’era più
cibo, le poche coltivazioni erano state distrutte, l’acqua era inquinata, le
malattie imperanti ed oramai eravamo rimasti solo un cinquantina, forse anche
meno. Profughi, ecco cosa eravamo diventati.
Dei profughi.
Mia madre
mosse per Goinaki, alcuni vennero con noi, altri invece si spostarono non so
dove. La città era più soggetta ai raid perché bersaglio facile, l’avevamo
imparato, ma ormai eravamo alla carestia. Quel poco di vettovaglie che c’erano arrivavano
direttamente in città, non avevamo molta scelta. O morivamo di certo per fame o
malattia oppure rischiavamo di morire sotto le bombe.
Avevo
sempre sognato di andarmene, ma non in quel modo, non così. Sapere di star
lasciando casa tua, probabilmente per sempre, è un dolore, una tristezza che ti
scava dentro. Mia madre mi disse che potevo piangere solo una lacrima, soltanto
una, a patto che fosse buona. Era dannatamente buona.
Una mano
sulla spalla mi riporta prepotentemente al presente. Mi accorgo di avere gli
attrezzi in mano e di star fissando il vuoto, chissà da quanto. Il proprietario
della mano mi comunica che la giornata è finita, che posso andare a riposarmi
un poco e che il caldo fa brutti scherzi alla testa.
A Bullfinch fa caldo…
troppo caldo.